martedì 28 maggio 2013

Cavarsela da soli: Zimbabwe. Nello Zambesi e nel Lake Kariba a forza di pagaia.





Organizzazione

Percorrere in canoa il basso Zambesi senza l'aiuto di un operatore affidabile o di una guida professionale è quasi impossibile ed estremamente sconsigliabile.
In primo luogo, è molto difficile avere una canoa; secondo luogo si può andare in canoa solo se si ha un permesso e quasi tutti i permessi vengono dati ai principali operatori turistici.
Nel caso riuscirete a trovare una canoa, ricordate che lo Zambesi è un fiume molto potente, pieno di ostacoli, sono presenti molti coccodrilli e ippopotami imprevedibili.
Ci dovrebbero essere sempre almeno due canoe ed è essenziale avere una guida. Di fatto, l'unico modo sicuro per scendere il fiume in canoa è unirsi ad un gruppo organizzato, prenotando ad Harare o a Victoria Falls.


Mana Pools National Park





E' invece possibile visitare la splendida area del Mana Pools National Park sia a piedi sia in auto.
La strada che entra nel parco dalla via principale Harare-Lusaka è in cattivo stato e va percorsa con un veicolo a quattro ruote motrici, noleggiabile nella capitale (a 400 chilometri dal parco).
Per essere ammessi al parco occorre aver preventivamente prenotato una sistemazione o un posto tenda: prendere un autobus lungo la strada principale e fare l'autostop (illegalmente) nel parco non porta lontano.
In alta stagione, la richiesta di posti nel Mana Pools National Park è così alta che spesso vengono assegnati per sorteggio.
Il parco è chiuso da novembre ad aprile.
Si può tranquillamente andare in giro a piedi e disarmati, purché si stia attenti e all'erta.
Stando alla larga dai boschetti e dall'erba alta, è alquanto improbabile imbattersi in qualche animale che possa reagire alla sorpresa attaccando (soprattutto bufali e leoni).
Si ritiene che non ci siano più rinoceronti, i leopardi sono di solito troppi timidi per contatti ravvicinati né dovrebbero venire problemi dagli elefanti, se trattati con rispetto (specialmente femmine con i piccoli).
E' meglio partire a stagione asciutta inoltrata, quando la vegetazione sta seccando, piuttosto che subito dopo la stagione delle piogge, quando l'erba è ancora spessa e alta.


Matusadona national Park




Anche per le escursioni a piedi nel Matusadona National Park occorre ricorrere a una guida professionista.
La maggior parte degli accampamenti e dei lodge lungo la costa dello Zimbabwe organizza questo genere di safari; in alternativa all'aereo, i più vicini a Kariba sono raggiungibili con una barca a motore.
Ci sono accampamenti più grandi e un po' più impersonali, ma meno costosi: anche qui l'esclusività si paga.
Alcuni accampamenti organizzano safari in auto o a piedi e gite in barca.
Se non volete dormire in un lodge, potete affittare una house boat, con tango di skipper, cuoco e marinaio, mentre spetterà a voi provvedere a cibo e bevande.
Se vi affidate anche a una guida professionista potete ormeggiare e camminare all'interno del parco, oppure fare una crociera lungo costa con la piccola barca a motore data in locazione con la house boat, cercando mammiferi e facendo birdwatching.
Potrete così gustare al meglio il lago e i suoi tramonti, che sono sempre un'esperienza magica.





lunedì 22 aprile 2013

Appunti di natura: Uganda-Rwanda, i gorilla di montagna.


Gran parte delle nostre conoscenze sui gorilla proviene da studi sul campo, non della varietà più diffusa di pianura, ma del rarissimo, e quasi estinto, gorilla di montagna, una sottospecie del gorilla orientale.
Il gorilla di montagna è quella scimmia antropomorfa dal mantello irsuto che abbiamo conosciuto attraverso gli studi di George Shaller e Dian Fossey, e il film televisivo di David Attenborough.
Oggi ne sopravvivono circa 600 allo stato selvatico e nessuno in cattività.






Gli ultimi gorilla di montagna acquistati dallo zoo di Londra giunsero in Inghilterra all'inizio degli anni '60.
Si trattava di magnifici animali giovani, e l'obiettivo era di allevarli e di creare una colonia in cattività, ma essi rimasero vittime delle malattie dell'uomo e scomparvero in breve tempo.
Furono gli ultimi esemplari a essere portati fuori dal loro territorio naturale, all'interno del quale oggi, non è esagerato a dirlo, la loro sopravvivenza è appesa a un filo.
E' stato stimato che alcuni anni fa un epidemia di ebola abbia sterminato 5000 gorilla occidentali di pianura, ed è facile immaginare le catastrofiche conseguenze di un tale virus se riuscisse a penetrare nel territorio degli ultimi 600 esemplari di gorilla rimasti sulla terra.
Per fortuna, i gorilla di montagna sono separati dai loro cugini occidentali da una distanza di oltre 1000 chilometri, perciò, almeno per il momento, possono considerarsi al sicuro da questa particolare minaccia; tuttavia l'aumentato flusso di turismo verso i loro rifugi di montagna comporta un rischio quotidiano di diffusione di malattie dell'uomo. ma anche questa minaccia, per il momento, e per merito dei ranger è sotto controllo.
Si spera che questo disastro non accada mai, ma se dovesse accadere ci ritroveremmo con uno scrigno d'informazioni da cui attingere per ricordare questi primati unici.
Gli studi effettuati finora sono tra i più esaurienti nell'ambito di quelli condotti su animali allo stato selvatico.
I gorilla di montagna vivono nelle foreste immerse tra le nuvole, nel punto di confluenza di Uganda, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, proprio al centro del continente africano.
La loro dieta consiste al 90% di foglie, fiori, germogli, steli e radici, provenienti da non meno di 142 specie di piante.
Talvolta integrano la loro dieta con corteccia d'albero, frutta, terreno (per i minerali) e formiche.








Un maschio adulto consuma quotidianamente fino a 34 kg di materia vegetale.
A causa della scarsa qualità nutrizionale della loro dieta, i gorilla di montagna trascorrono almeno metà della loro giornata mangiando.
L'altra metà la dedicano al riposo, mentre la notte, i membri dello stesso gruppo dormono uno accanto all'altro in giacigli separati, preparati di fresco ogni sera.
A essere sinceri, si tratta di una vita da bovino per un primate dotato di un cervello così grande: un eterno picnic, senza soluzione di continuità.
Le distrazioni sociali, poi, sono poche e remote.
In un gruppo di gorilla di montagna, i rapporti interpersonali sono calmi e rilassati e quando un gruppo s'imbatte in un altro gruppo, raramente sorgono questioni territoriali.
Al contrario, i due gruppi fanno tutto per evitarsi.
Ad eccezione dell'uomo, questi primati non temono nessuno altro predatore.
Lo spirito di competizione con gli scimpanzé è trascurabile, poiché gli scimpanzè che condividono il loro territorio sono animali arboricoli che si nutrono essenzialmente di frutti, e non hanno nessun interesse per le piante consumate dai gorilla.
Un gruppo tipico di questa specie consiste di otto-dieci individui: un maschio dominante, tre o quattro femmine adulte e i loro piccoli di varie età.
Nel 40% circa dei gruppi, tuttavia, il maschio dominante permette ad altri maschi adulti di stato inferiore a unirsi al gruppo, lasciando svolgere loro l'utile ruolo di sentinelle.
L'ammissione nel gruppo di questi maschi aggiuntivi presenta un altro vantaggio, poiché, quando il vecchio maschio dominante muore, uno di essi può prendere tranquillamente il posto.
Quando non sono presenti altri maschi subordinati, la morte del capo può comportare il disfacimento di tutto il gruppo famigliare.
Questo tipo di organizzazione sociale è qualcosa che il gorilla occidentale di pianura eviterebbe a tutti i costi, e costituisce probabilmente una delle maggiori differenze comportamentali tra queste due specie di gorilla.
I rapporti tra la femmina e il maschi dei gorilla sono solitamente amichevoli.





Sebbene l'unità sociale base sia un gruppo costituito da un maschio enorme e da una serie di femmine di dimensioni molto più piccole, il maschio non può affidarsi alla forza bruta per tenersi stretto il suo harem.
Nella fitta foresta abitata da questi primati, sarebbe fin troppo facile, per una femmina trattata male, fuggire e trovare un altro gruppo nel quale inserirsi.
Così, nonostante la loro straordinaria forza, i maschi sono costretti a gestire bonariamente il loro ruolo dominante.
Gli osservatori hanno anche riscontrato una particolare tenerezza del maschio dominante nei confronti dei suoi piccoli.
Tra tutte le grandi scimmie antropomorfe, i gorilla sembrano essere quelli meno interessati al sesso.
L'atto della copulazione è molto più breve e insignificante di quanto si potrebbe pensare.
Secondo quanto osservato, la durata di un accoppiamento, in condizioni di cattività, non supera i 10-15 secondi, con un unico caso durato 3 minuti.
Nell'osservare queste copulazioni, si è notato che il maschio effettuava solo pochi movimenti pelvici.
I primi rilevamenti fatti su animali allo stato selvatico sembravano puntare in direzione contraria, suggerendo l'ipotesi che la situazione artificiale creata in cattività potesse svolgere un'azione inibitoria sui gorilla.
In un caso, si erano osservati quattordici movimenti pelvici, mentre in un altro, in cui la monta era durata quasi 5 minuti, ne erano stati contati non meno di trecento.
Il dato più sorprendente di questi due accoppiamenti, tuttavia, era che in entrambi i casi non si trattava del maschio dominante, ma di maschi subordinati.
In seguito, più dettagliate osservazioni sul campo, hanno confermato che il maschio dominante consente talvolta ai maschi subalterni di accoppiarsi, ma che la maggioranza degli accoppiamenti sono effettuati dal maschio alfa in persona.
Lontano dall'essere il bruto dell'immaginario popolare, il gorilla, nonostante la sua enorme forza, è senz'altro il più gentile, amichevole e riservato di tutte le grandi scimmie antropomorfe.







Letture di viaggio: Khaled Hosseini. Il cacciatore di aquiloni.






La storia dell'Afghanistan degli ultimi decenni è una storia terribile, fosca e tragica, un puzzle d'orrori composto con le tessere di vite spezzate, di esistenze straziate ed umiliate, di infanzie rubate. Il cacciatore di aquiloni (edito Piemme), narrando le vicende di due bimbi, Hassan e Amir, per creare un affresco che rappresenti tutte le vicissitudini che hanno messo in ginocchio quel paese - dall'occupazione russa alla piaga talebana, dai bombardamenti americani alla presa del potere da parte del governo fantoccio dell'Alleanza del Nord - parte da una metafora splendida: c'è stato un tempo in cui nei cieli di Kabul volavano gli aquiloni (sport nazionale afghano), le cui eleganti evoluzioni rappresentavano la libertà del paese. Poi gli aquiloni non volarono più: era iniziata la tremenda odissea del popolo afghano. Amir, figlio del ricco commerciante Baba, vive col padre in una grande, lussuosa villa con giardino; la madre - con grande sconforto del padre - morì nel mettere alla luce il bimbo, cosa che Baba non ha mai effettivamente perdonato al figlio. A far loro compagnia Alì, servitore di Baba da sempre, ed il figlio Hassan, inseparabile ed adorante compagno di Amir: i due, oltre a trascorrere insieme le spensierate giornate dell'infanzia, formano una formidabile coppia nei tornei cittadini di combattimenti tra aquiloni. Il ricco Amir è il "pilota", Hassan il suo "secondo": difficile che il filo svolto dal rocchetto degli avversari riesca a rimanere integro quando si scontrano con questo formidabile duo. In più Hassan, col suo viso da bambola ed il labbro leporino, è il più forte cacciatore di aquiloni di Kabul: quando un filo viene reciso in combattimento e l'aquilone vaga in cielo in preda al vento, lui saprà sempre dove andrà a cadere, facendone una preda di guerra per Amir. 
Ma l'armonia tra i due ragazzini si spezza quando qualcosa di terribile accade ad Hassan per colpa di Amir: l'atteggiamento di quest'ultimo nei confronti dell'amico muterà, dettato da un'ostilità figlia del rimorso covato nell'ombra della propria coscienza, in un perverso gioco di specchi. 
L'arrivo dei russi a Kabul porterà alla separazione delle due mezze famiglie: Amir e Baba fuggiranno in America, Alì ed Hassan resteranno chissà dove in Afghanistan. 
Dopo venticinque anni Amir ha realizzato il suo sogno - sempre guardato con scetticismo dal pragmatico e concreto Baba - di diventare scrittore, si è sposato, ha una buona vita nella sua casa di San Francisco. Ma a sollevare le nebbie faticosamente accumulate su un passato scomodo ci pensa una telefonata dall'Afghanistan, che non gli lascia scelta: in barba alla viltà di cui si è accusato per tutta la vita parte alla volta di Kabul, alla ricerca di Sohrab, il figlio di Hassan reso orfano dalla crudeltà dei Talebani. Ma ad attenderlo a Kabul non ci sono solo i fantasmi del passato: quello che trent'anni prima era il suo paese ora è una landa desolata in cui vagano donne invisibili, dove i marciapiedi sono carichi di relitti umani ammassati gli uni sugli altri, dove avere un padre od un fratello maggiore è un lusso dopo gli stermini talebani, dove gli occhi della gente restano incollati al selciato per timore di incrociare fatalmente lo sguardo sbagliato, dove gli aquiloni non volano più...Terribile e toccante, in particolare nelle ultime centocinquanta pagine - quelle appunto del ritorno - Il cacciatore di aquiloni mi ha fatto venire alla mente un altro capolavoro della letteratura che ho adorato: L'amico ritrovato di Fred Uhlman: una storia d'amicizia, di separazione forzata, causata da eventi fuori dal controllo del singolo, anni di silenzio e poi la chiamata del destino che forza uno dei protagonisti a scavare nel proprio passato per riabbracciare l'adorato compagno di tante avventure, seppur non di persona ma attraverso qualcosa o qualcuno che lo rappresenta... Hosseini scrive in modo magico, in grado di stregare il lettore, di incollarlo alle sue pagine vivendo in prima persona i travagli interiori di Amir, sentendo fischiare i proiettili russi prima e talebani poi sopra alla propria testa, ritrovandosi il viso rigato di lacrime al primo sorriso che Sohrab gli rivolge.







domenica 21 aprile 2013

Kenya e Tanzania: Muoversi nella grande natura.



Cautele e norme di comportamento per evitare rischi inutili e pericolosi, incontri ravvicinati con i grandi felini, elefanti, bufali e mamba nella visita delle grandi savane africane.




Trovandomi a camminare e sostare nella savana, capisco quante esagerazioni sono radicate nel nostro immaginario di occidentali e come, spesso, sia sufficiente "conoscere" per allontanare tante paure ingiustificate.
La situazione più frequente, nel caldo del giorno, è quella del silenzio.
Solitudine e silenzio interrotti solo dal vento.
Un vento che trasporta importanti e misteriose tracce odorose, comprese le mie.
Nessun serpente velenoso, scorpione gigante o belva in agguato.
Solo erba, acacie e tante tracce: il passaggio dei facoceri, gli escrementi di impala, i rami spezzati dagli elefanti.
Neppure, all'opposto, si deve credere di muoversi qui come si può fare in uno dei nostri boschi.
I rischi ci sono, e spesso si presentano all'improvviso.
Sono queste le circostanze più pericolose, ma in genere facilmente evitabili.
Come quasi sempre accade la giusta via sta nel mezzo delle cose, e muoversi in una grande natura come quella "selvaggia", particolarmente abbondante di grandi animali come nelle savane africane, impone di astenersi da una eccessiva leggerezza come da un ossessivo timore.
L'importante è non cimentarsi in situazioni e con protagonisti di cui non si ha esperienza e conoscenza.
Non mi sono mai avvicinato ad un animale di cui non conosco le reazioni; non ho mai curiosato tra i cespugli, anfratti, Kopies e possibili rifugi e, molto importante, non ho mai impaurito gli animali in alcun modo.
Nei parchi, dove la fauna è più concentrata, esistono già i regolamenti che vanno rispettati per la propria sicurezza e per non disturbare gli animali. Io mi ricordo in ogni istante che sono a casa loro, e dunque dopo aver chiesto il permesso mi comporto  in maniera rispettosa.
Non ci vogliono studi particolari o stage al Cepu, basta semplicemente il buon senso.
Malgrado i leoni e i leopardi siano i più temibili predatori, gli incidenti in cui incappano i turisti avvengono per lo più con elefanti, bufali e ippopotami(fuori dall'acqua l'animale più pericoloso di tutti), che sfruttano le proprie dimensioni quando vengono spaventati o irritati.
Gli elefanti, in particolare i maschi solitari (non è mai un buon segno quando un elefante è da solo), hanno spesso carattere poco socievole e molto competitivo.
Mettersi sulla loro strada o infastidirli può stimolare cariche o reazioni estremamente pericolose.
Io continuerò sempre a sostenere, e per fortuna non sono l'unico, che gli ippopotami sono pericolosi tanto in acqua ma soprattutto a terra.
In acqua, se avvicinati su un'imbarcazione sbuffano e fingono false aggressioni e di solito tutto finisce lì, ma sarebbe pericolosissimo entrare in acqua per nuotare, perché non tollerano invasioni del loro territorio acquatico.
A terra, sopratutto la notte, sembrano goffi ma sono capivi di rapidi scatti accompagnati da colpi delle grandi zanne.
I bufali, invece, hanno il "difetto" di vederci poco e di caricare subito se si accorgono all'improvviso della vostra presenza ravvicinata.
Muovendosi in aree cespugliose o per uscire di notte dalla tenda è bene farsi notare e sentire, oltre che illuminare dove mettete i piedi. Farsi notare in modo discreto, e non come Paola che nel 1998 nelle vicinanze del lago Turkana in Kenya, il suo farsi notare era cantare a squarciavoce "Il triangolo" di Renato Zero.
Gli animali non sembravano disturbati dl tono della voce, ma proprio dalla canzone.
Esistono poi elementari precauzioni, come quello di chiudere la tenda o le porte e finestre durante la notte. (in tenda consiglio sempre di appoggiare lo zaino a contatto con le cuciture della chiusura per evitare l'ingresso di piccoli o minuscoli animali).
Non vagano certo in cerca di uomini e il contatto può essere solo accidentale e quindi inevitabile.
La maggioranza degli incidenti più gravi e con grossi animali avviene comunque per inavvedutezza o spavalderia: troppo spesso si dimentica che sono veri animali selvatici e che in questa dimensione l'uomo assume un ormai inconsueto ruolo di "preda".
Anche i serpenti velenosi e agressivi, come cobra e mamba, tentano per loro scelta di evitare l'uomo ed è sufficiente un po' di circospezione attorno ai bungalow o la tenda per non incappare in improvvisi incontri ravvicinati.




La prima regola, infatti, è sempre quella di offrire all'animale il tempo e l'opportunità di fuggire: niente di peggio di un animale costretto ed impaurito, per cui attaccare resta l'unica possibilità.
Le maggiori preoccupazioni derivano comunque dai piccoli animali.
Gran parte delle savane africane e infestata dalle fastidiose mosche tsè-tsè, che in genere sono solo noiose e poco sensibili ai classici repellenti per insetti.
E' necessario però informarsi sulla presenza del Tripanosoma, un protozoo che può essere trasmesso dalle punture delle mosche e provocare la pericolosa "malattia del sonno", nel qual caso è bene evitare accuratamente le aree interessate.
Senz'altro più diffuso è il rischio della malaria, trasmesso dalle punture delle zanzare Anopheles:
Ai repellenti è necessario abbinare un'adeguata profilassi e, per Kenya e Tanzania, dove esiste il Plasmodium Falciparum, non basta la sola clorochina. (Lariam e Malarone).
Molte persone decidono di non fare la profilassi perché ci sono degli effetti collaterali molto forti, o perché l'amico gli ha consigliato di non farla.
Quella dell'amico mi è sempre piaciuta, perché lui consiglia ma la vita non è sua...
Di malaria si muore, fate la profilassi.






Letture di viaggio: Tiziano Terzani. Un indovino mi disse.






Nella primavera del 1976, a Hong Kong, un vecchio indovino cinese avverte l’autore di questo libro: «Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai». 
Dopo tanti anni Terzani non dimentica la profezia (che a suo modo si avvera...), ma anzi la trasforma in un’occasione per guardare al mondo con occhi nuovi: decide infatti di non prendere aerei per un anno, senza tuttavia rinunciare al suo mestiere di corrispondente. 
Il 1993 diventa così un anno molto particolare di una vita già tanto straordinaria: spostandosi in treno, in nave, in auto e talvolta anche a piedi, Terzani si trova così a osservare paesi e persone della sua amata Asia da una prospettiva nuova, e spesso ignorata. 
Il risultato di quell’esperienza è un libro straordinario, che è insieme romanzo d’avventura, autobiografia, narrazione di viaggio e grande reportage.








sabato 20 aprile 2013

Luoghi: Mali, Djennè.





Djennè, su un'ansa del Bani, è indubbiamente la più bella città del Sahel e, nonostante la continua insistenza di guide inutili, un posto unico al mondo.
Gli edifici, che per la maggior parte dell'anno si trovano su un'isola, sono tagliati nelle delicate linee dello stile sudanico, plasmate con l'argilla grigia dei circostanti alvei.
Nella piazza principale domina il paesaggio la famosa Grande Mosquèe.
La gente della regione fluisce in città per il mercato del lunedì, il giorno migliore per farsi un giro.
Se ignorate la massa di viaggiatori che fanno ciò che fate voi, potete immaginarvi cosa doveva essere la vita nel Sahel cento e più anni fa.
Djennè, in origine un insediamento Bozo, fu fondata intorno all'800, secondo il Tarikh es-Soudain, una delle più antiche testimonianze scritte del Sahel.
Il sito originario era un posto chiamato Djoboro, che fu poi trasferito nella posizione attuale forse già nel 1043 (altre fonti parlano di due secoli dopo).
Nel XIII secolo, durante il regno del sovrano Soninkè Koi Kounboro, Djennè si convertì all'islamismo: il re rase al suolo il proprio palazzo per far posto alla prima moschea cittadina.
Djennè divenne una stazione secondaria per il commercio di oro, avorio, pelle, lana, noci di cola, e altre merci preziose dal sud. I mercati avevano qui i loro depositi e vendevano i prodotti in spacci sparsi per tutta la regione, ma soprattutto a Timbuctu.
Furono costruite intere flotte di barche, alcune lunghe 20 m, in grado di trasportare decine di tonnellate di quei beni (o prodotti) sino a Timbuctu, da dove partivano per il nord.
Nel 1325, Djennè fu annessa all'impero del Mali, raggiungendo un periodo di stabilità e fioritura ininterrotta.
Nel 1473 fu assoggettata all'impero Shongai.
In questo periodo si rafforzarono gli scambi intellettuali e commerciali con Timbuctu finchè nel 1591, Djennè cadde nelle mani del Marocco, sotto il cui dominio rimase sino al XIX secolo.
Per la città cominciò un lento declino che le successive invasioni non riuscirono a fermare.
Nel 1810 Cheikou Ahmadou, un fanatico religioso di Masina, sconfisse i marocchini e distrusse la famosa moschea di Djennè.
Nel 1862 l'impero Tukulor si impossessò della città, riuscendo a tenerne il controllo solo fino al 1893, quando arrivarono le truppe francesi.
Nel 1988 l'Unesco ha dichiarato Djennè Patrimonio Mondiale dell' Umanità.





Arrivando via terra, quando si attraversa la diga che conduce in città, si vede subito la Grande Mosquèe di Djennè innalzarsi al cielo.
Questo capolavoro architettonico risale appena al 1905, ma fu costruito nello stile della moschea originale, eretta durante il regno di Koi Kounboro.
Le linee affusolate della facciata sono dominate da tre torri, alte ognuna 11 m. e sormontate da un uovo di struzzo.
Dall'edificio sporgono i caratteristici travi, la cui funzione non è meramente estetica, ma anche di sostenere le impalcature per il restauro dell'edificio.
Ogni anno infatti le piogge lavano via gli strati esteriori dell'argilla di cui è fatta la moschea, e nella stagione asciutta gli abitanti collaborano alla manutenzione.
L'interno è una foresta di colonne collegate da robusti archi.
Si dice che la moschea possa contenere circa 5000 fedeli, non male se pensate che la popolazione di Djennè è poco meno del doppio. Purtroppo, in seguito al comportamento irrispettoso tenuto da turisti insensibili, i visitatori non musulmani non possono entrare, ma dalla casa di fronte si gode di una bella vista.
Dietro la moschea, 200 m. più in là, c'è la tomba di Tapama Djenepo, una ragazza bozo che, secondo la tradizione orale, fu sacrificata dai fondatori di Djennè per proteggerne gli edifici dal crollo.
Imperdibile è il mercato del lunedì, quando i mercanti da tutta la regione giungono in pellegrinaggio in città.
Espongono la loro merce sulla piazza principale di fronte alla moschea in maniera molto simile a quella descritta dall'esploratore francese ottocentesco Renè Caillè nel suo libro "Viaggi attraverso l'Africa centrale per Timbuctu".
Pochi sono, forse nessuno, i mercati così vivi, colorati e ricchi(quei colossali orecchini che vedete indugiare sono d'oro puro) come quello di Djennè al lunedì mattino.








Arte Subsahariana: L'arte della costa occidentale.







Dalla fine del XVI secolo, il crollo dell'impero Shongay ha generato uno spostamento interno delle popolazioni mandè, che hanno abbandonato i territori interni e si sono stanziate nelle odierne Liberia, Guinea, Sierra Leone e Costa D'Avorio.
L'Africa occidentale che gravita intorno al fiume Niger ha dunque avuto esperienza di convivenze tra popoli molto diversi tra loro.
Tutti questi popoli hanno trovato un motivo di comunione nell'appartenenza a società segrete ed esclusive, dalla finalità religiose e di costruzione della morale, come il Poro.
In tal senso è da leggere la presenza trasversale di espressioni artistiche, come le maschere tradizionali, nelle diverse culture.
Con una novità, rispetto ad altre zone d'Africa: contro ogni tradizionalismo, qui anche le donne possono talvolta indossarle.






Costa Occidentale di Guinea



La regione che dalla valle del fiume Gambia e della Casamance, nel sud del Senegal, si estende fino alla Costa d'Avorio non ha conosciuto la costruzione di grandi entità statali che ha invece riguardato la zona sahelica dell'Africa occidentale ma non per questo è rimasta estranea a tali processi storici: le popolazioni che la abitano (Baga in Guinea, Bidjogo in Guinea Bissau e Shebro in Sierra Leone, ecc.) vi sono giunte sospinte dalla pressione delle popolazioni di lingua mande.
Si tratta di una zona forestale dai litorali paludosi in cui hanno trovato rifugio molte popolazioni.
I Baga sono la popolazione costiera; gli uomini si dedicano alla pesca e alla coltivazione della noce di cola mentre le donne coltivano il riso.
I Bidjogo sono una popolazione di circa quindicimila persone vivente nell'arcipelago delle isole Bijagos, di fronte alle coste della Guinea Bissau, la cui principale coltivazione è quella del riso.







Cameroun. Chefferie del Grassland


"Come un bambino: mia madre è il mio capo, mio padre il capo di mia madre e il re il capo di mio padre".
( Proverbio Bamileke, Cameroun )



Il termine chefferie, solitamente tradotto in italiano con "dominio", indica nella letteratura antropologica una sorta di livello intermedio fra le società acefale e quelle statuali.
Si tratta di una nozione che presenta qualche ambiguità in quanto i "capi" in Africa sono stato spesso una creazione coloniale, un tramite fra l'amministrazione europea e le popolazioni locali.
Similmente oggi, con l'avvento del multipartitismo in molti stati africani, i "capi tradizionali" sono serviti come efficaci collettori di voti.
Le stesse difficoltà rincontrate dagli stati postcoloniali nel creare una forte identità nazionale, d'altronde, ha contribuito a un rilancio delle autorità e delle appartenenze locali.
Negli altopiani del Cameroun occidentale a partire dal XV secolo, si è formato un mosaico di piccoli regni ( Bamun, Bamileke, Tikar ), quasi un centinaio, risultanti dalla sovrapposizione di popolazioni già presenti in zona con altre provenienti da aree vicine.
Si tratta dunque di strutture politiche che non hanno una base etnica omogenea ma che trovano la loro unità nel riconoscimento del potere politico e religioso del sovrano ( fo ).
Presso i Bamileke il fo amministra la terra distribuendola fra le diverse famiglie; pur non essendo una figura divina ha un potere sacrale che gli deriva dall'antenato fondatore: da lui dipende la fecondità della terra e delle donne e quindi la prosecuzione della vita e il benessere della comunità.